Recensione: “La Traviata” di VoceAllOpera (16 aprile 2015) – Teatro Filodrammatici di Milano

Nella battaglia fra Verdi e i censori, i benpensanti o semplicemente gli stupidi, finalmente c’è qualcuno che si schiera dalla parte di Verdi. Il quale voleva la sua Traviata in abiti contemporanei, perché come storia contemporanea era stata pensata, e si arrabbiò moltissimo quando si rivelò troppo forte per l’ipocrisia borghese coeva e la si dovette retrodatare a uno stile Reggenza (fra i Luigi XIV e XV) che sfigurò l’opera fino agli inizi del Novecento, come testimoniano innumerevoli foto di scena. E’ lo stesso stridente scarto fra il messaggio dell’opera e la sua rappresentazione che si verifica oggi quando vediamo Traviata in costumi Ottocento, con le crinoline e i frac. E’ lo stesso che, bambini, ci rendeva incomprensibile l’opera: ma perché, ci si chiedeva nella beata ingenuità dell’età, quel signore anzianotto fa tutta quell’iraddiddio se suo figlio vuole sposare quella bella signora, così chic, che vive in uno splendido palazzo e (apparentemente) non fa che stappare bottiglie di champagne insieme ad amici eleganti quanto lei?
E’ il solito discorso fra la fedeltà formale e quella sostanziale, fra il culto della didascalia e la ricerca di quel che c’è dietro, fra l’ossequio alla lettera e la ricerca della sostanza. La traviata o è contemporanea o non è. Anche perché poi, andando a guardare nella cronaca, non è che quell’ipocrisia non ci sia più. Forse è cambiata, sotto i veli pietosi e penosi del politically correct: ma non è che chiamare escort quella che Verdi, da quello spiccio contadino padano che era, chiamava “una puttana” che il realismo di certe situazioni sia meno crudo. E magari lo ritroviamo, pari pari, nelle intercettazioni pubblicate sulla stampa dell’ultima inchiesta clamorosa.
Sono concetti talmente ovvii e banali che non varrebbe nemmeno la pena di ripeterli. Ora, La traviata contemporanea di VoceAllOpera, realizzata come al solito con una quantità di mezzi inversamente proporzionale alla passione, insomma con pochi soldi ma molto talento, ribadisce che quest’opera va fatta non tanto “come la voleva Verdi” (che comunque oggi la vorrebbe proprio così), ma come la vogliamo noi: uno specchio nel quale si riflettono le violenze, le ipocrisie e i falsi moralismi della nostra società. Esattamente come fa Gianmaria Aliverta nella sua regia spiazzante e senza rinunciare nemmeno a “metterla giù” con la dovuta ironia: vedi la festa in casa di Flora con le sue stralunate zingarelle barbute, o Violetta che alla fine del primo atto si toglie le scarpe. Già. Cosa c’è di più naturale, alla fine della festa, congedati gli amici, di scendere dal tacco 12? Ma chi sa ha riconosciuto la citazione. Nella famosa Traviata del ’55 alla Scala, regista Luchino Visconti, le care salme e le povere zie si irritarono moltissimo quando la Callas fece altrettanto: ma come, una primadonna a piedi nudi sul sacro palcoscenico della Scala? Sono gli stessi, intellettualmente gli stessi (e qualche volta anche fisicamente) che vanno a lanciare i volantini contro i registi che fanno vedere quello di cui Verdi parla. E poi, ripassando da Visconti all’Aliverta (my God), lo spettacolo è pieno di buone idee, come l’Annina bambina che diventa testimone della tragedia, quasi un alter ego di Violetta come ipotesi di un’impossibile normalità, e anche di buonissime, come il rosario che l’orrendo papà Germont cerca di ficcare a forza nelle mani di Violetta agonizzante.
Musicalmente, c’era anche la chicca di sentire la prima versione dell’opera (quella del fiasco alla Fenice nel 1853, cui fecero seguito delle modifiche – tutto sommato abbastanza ridotte – e la resurrezione, l’anno seguente, al San Benedetto) e con l’orchestra, in realtà un trio d’archi con pianoforte, accordata al la verdiano, più basso dell’attuale: ed è forse questo, per inciso, che ha talora messo in difficoltà gli esecutori. Ottima, per contro, la protagonista Federica Vitali: a parte un mi bemolle perfettibile, una Violetta assai convincente. Che la protagonista debba avere “tre voci” è una sciocchezza loggionistica; deve però averne una, e soprattutto “talento grande, anima e sentimento di scena”, tanto per citare ancora Verdi: bene, Vitali li ha. Al suo fianco, due affidabili Germont, Giovanni Tiralongo il senior e Oreste Cosimo lo junior. Benissimo i comprimari, tutti molto disinvolti in scena, e il coro, idem. Menzione particolare per Vittorio Dante Ceragioli, Giuseppe ma anche, nel primo atto, severissimo buttafuori barbuto e nerocchialuto (perché i buttafuori sono sempre incavolati? Chissà) della festa chez Violetta.
Nel complesso, non è stata una Traviata fastosa. Ma è stata Traviata molto più di molte Traviate fastose.
Alberto Mattioli